Libero Bovio, un poeta, scrittore e drammaturgo italiano, nacque a Napoli l'8 giugno del 1883. Suo padre era Giovanni Bovio, il famoso filosofo e patriota, guida dell'Associazione Italia Irredenta e la madre Bianca Nicosia era una pianista. Nato a Trani, Giovanni Bovio venne a Napoli per tenere lezioni di filosofia all'Università, e vi rimase.
Un uomo integerrimo, coerente fin nella scelta del nome da imporre ai due figli: il primo lo chiamò Corso, quasi a rivendicare l'italianità dell'isola sottoposta ai francesi; il secondo Libero: un augurio a tutti gli irredenti. Gli studenti cominciarono a sfruculiare: "Bovio tiene il corso libero di filosofia, adesso farà una terza figlia per chiamarla Filosofia".
Libero crebbe tranquillo e gioviale, arrotondato da un precoce accenno di pancetta. La madre Bianca lo voleva medico, ostinatamente. Ma, come Di Giacomo, il ragazzo si rifiutò. All'inizio l'idea gli piacque, ma la speranza materna naufragò quando un cugino, buon chirurgo, trascinò il giovane parente in sala operatoria dove Bovio svenne davanti allo spettacolo di una popolana della Vicaria accecata dal guappo amante.
Alla morte del padre – onestissimo e quindi dignitosamente povero – il ventenne Libero avrebbe dovuto contribuire al bilancio familiare, invece sognò una vita di versi. Donna Bianca tentò di scoraggiarne le ambizioni; buona pianista, inondava la casa delle note di Beethoven per convincerlo che quella era la musica, altro che Tosti e Di Capua! Di fronte all'impossibile – e dopo aver scoperto un foglio sgualcito con i versi della prima poesia tristemente intitolata "Malatella" – la signora Bovio si aresse e il ventenne Bovio entrò a far parte come cronista del "Don Marzio", quotidiano glorioso quanto povero. Il giornale pagò all'esordiente uno stipendio di due lire al mese, eppure Libero ne ricevette sette o quindici: la differenza la versava segretamente donna Bianca per invogliare il giovanotto al lavoro. Eppure Bovio si stancò del giornalismo, che a suo avviso rubava troppo tempo alla poesia. Preferì un impiego di concetto al Museo Nazionale, che gli lasciava molto più tempo per scrivere.
Già negli anni giovanili scrisse canzoni. La prima fu "'Nu mistero", musicata nel 1902 da Giulio Del Vecchio e apparsa nell'Album Del Vecchio. Seguirono l'anno dopo "'A vita è 'nu suonno" ('O scoglio d' 'e ffate), musicata da Gambardella e Ddoje staggione. Nello stesso periodo scrisse opere per il teatro ("Chitarrata" e "Mala nova" nel 1902) in cui dimostrò la possibilità di fare teatro d'arte in napoletano.
Presto fu un nome noto agli appassionati di Piedigrotta: "'A muntanara" con Ernesto De Curtis, "Napulitana" e "'Na cammarella" con Rodolfo Falvo, "Si chiagnere me siente" con Salvatore Gambardella, "Si 'sta chitarra" con Evemero Nardella. Il successo definitivo arrivò nel 1909, ancora con Ernesto De Curtis: "Canta pe' mme!" E poi "Surdate" con Evemero Nardella. Bovio si avventurò artisticamente anche nel mondo della malavita amato da Ferdinando Russo. Ma lo fece alla sua maniera, con ironia dolente. "Guapparia", 1914, è un capolavoro.
Sostenne la patria in armi, ma descrisse dolori di madri ("'A guerra") e sofferenze di combattenti ("Canzona 'e surdate"). Gli orrori sui fronti non frenavano la poesia: "Napule canta" con Tagliaferri, la straordinaria "Tu ca nun chiagne" con De Curtis, "'A canaria" con Gaetano Lama.
Già nel 1913, su note di Emanuele Nutile, Bovio aveva poetato in italiano: la fortunata "Amor di pastorello". Nel 1917, in collaborazione con Gaetano Lama, nacque in originale veste napoletana uno dei suoi capolavori, "Reginella". Qualche tempo dopo Bovio la volse in italiano. Finse di indignarsene, chiedendo a Lama: "Ma chi è 'stu fetente c'ha tradotto 'sta canzone?". Don Liberato continuò su questo versante con "Cara piccina!", "Piccola bruna", "Pallida mimosa", in tandem con Lama, "A, bi, ci" musicata da Mario Cosentino, fino alla famosa "Signorinella" del 1931, in collaborazione con Nicola Valente.
Libero Bovio pretese spesso – e ottenne sempre – di scegliere di persona i cantanti ai quali affidare le sue composizioni. Non fu un capriccio, ma una necessità d'artista: nessun altro autore seppe valorizzare come Bovio la capacità di un interprete. La voce diventò così, con i versi e la musica, la terza essenziale componente di un successo.
Era sempre tra i primi napoletani ad essere invitato alle prime di spettacoli e manifestazioni teatrali, ma, essendo umorista, anche in queste occasioni ufficiali non risparmiava nessuno dalle sue battute. Libero Bovio fu spiritoso perfino nelle commedie della vita. Tutti temevano le sue battute folgoranti, sferzanti eppure mai cattive. Tutta Napoli riconosceva Bovio come un maestro. Subito lo avvistava grazie al filo di fumo dell'eterna sigaretta, scappellandosi al passaggio della sua carrozzella. Tutta l'intellettualità italiana passava nel salotto di Bovio per due chiacchiere, un giudizio, una battuta.
Nel 1919 sposò Maria Di Furia dalla quale ebbe i due figli: Bianca e Aldo.
In 35 anni di poetico lavoro – secondo il calcolo del figlio Aldo – Bovio scrisse oltre 600 canzoni. Le altre più famose, per limitare l'elenco: "'Ncopp' a ll'onna", valzer lento di Fassone; "'O mare canta", "Silenzio cantatore" (Lama), "Brinneso" (Valente) la tragedia buffa, la struggente "Chiove" dedicata alla languente esistenza di Elvira Donnarumma, "L'addio" (Valente), "Zappatore", "Carcere" che è un'invettiva contro l'ingiustizia, "'O paese d' 'o sole" del 1925, in coppia con d'Annibale. Nello stesso 1925, in collaborazione con Buongiovanni, scrisse "Lacreme napulitane", straordinario apporto alla serie di canzoni dolenti sull'emigrazione.
Negli anni trenta il consolidamento del fascismo coincise con il declino della canzone napoletana. Bovio sfidò la trama del tempo fondando nel 1934 con 500 lire di capitale "La Bottega dei 4", insieme con Tagliaferri, Valente e Lama. Per quattro vennero divisi anche gli smilzi guadagni. Nelle stanzette affacciate sul traffico di via Roma nacquero l'indimenticabile "Passione" e la livida "L'ultima tarantella". Nel '37 Tagliaferri morì, il saluto di Bovio fu una "Chitarra nera". "Busciarda, me vuò bbene!" – nel medesimo anno – fu l'estremo canto.
Nell'autunno del 1941 l'eterno malato immaginario si ammalò davvero. Rintanato nella bella casa di via Duomo si curò con l'ironia. Quando il medico, magro e spettrale, gli disse: "Non vi preoccupate, starete bene come me!", il beffardo Bovio replicò: "Meglio morire!". Morì il 26 maggio del 1942 a quasi 59 anni, tra le mura familiari tremanti per un bombardamento. Due ore prima della fine dedicò l'estremo canto – "Addio a Maria" – alla moglie Maria Di Furia, tanto amata. Queste appassionate rime furono incise sulla tomba.
Suo figlio Aldo Bovio anche fu stato autore dei testi di alcune canzoni napoletane.